Stato e Chiesa nel Don Carlo di Verdi

29.11.2023

Il Don Carlo di Giuseppe Verdi fu composto originariamente in francese (con il titolo Don Carlos) per essere rappresentato la prima volta l'11 marzo 1867 a Parigi. L'opera venne poi tradotta in italiano e rimaneggiata più volte dallo stesso Verdi.

Il Don Carlo è un'opera che presenta novità legate alla strumentazione e al modo di trattare le voci, ma è soprattutto l'opera dei contrasti e delle ossessioni, delle tetraggini umane e politiche, dell'assolutismo asfittico di Stato e Chiesa.

L'opera colloca l'azione nel 1560, un anno dopo la pace di Cateau-Cambrésis tra Enrico II e Filippo II, evento che segnò la fine delle lunghe ostilità tra Francia e Spagna con il solito matrimonio pacificatore di scambio tra il monarca spagnolo con Elisabetta di Valois, figlia di Enrico e già promessa sposa a Carlo, figlio di Filippo. Siamo nella Spagna oscurata dalla cappa dell'Inquisizione, dalle libertà soppresse, dove tutto mostra l'affanno, i tratti di quel lungo arco di storia tra i più ingarbugliati d'Europa, e ce ne offre uno spaccato importante occupato dalla politica e dalla religione. Emergono le figure di Filippo II e del Grande Inquisitore.

Filippo è un sovrano assoluto che, contro ogni tentativo di divisione e spinta autonomista, utilizza la religione cattolica come elemento di unità. Il cattolicesimo andava difeso sopra ogni altra cosa e con ogni mezzo possibile, primo fra tutti la forza fisica, con tutte le sue conseguenze: castighi corporali, se si trattava di un individuo, e guerre se si trattava di popoli o nazioni. In questo progetto, Filippo si avvale del tribunale dell'Inquisizione per assicurarsi l'uniformità religiosa dei sudditi, sradicando il protestantesimo e reprimendo quei dissensi religiosi che potevano provocare l'indebolimento dello stato. Il Grande Inquisitore, un vecchio di novant'anni e per giunta cieco, è una cariatide dalla forza tremenda di cui persino Filippo, pur detestandolo, ha bisogno per sostenersi, per alimentare il proprio potere assoluto in cerca di conferme, come se il placet del vecchio gli mettesse a posto trono e coscienza. Due figure immense pur nella loro monumentalità statica, mummificata.

I due poteri si scontrano. I due assolutismi, Chiesa e Impero, stringono un braccio di ferro che mai avrà fine in una delle scene più memorabili tra le opere verdiane.

Il Grande Inquisitore è convocato da Filippo e la conversazione assume i contorni dello scontro vocale, in cui la tensione delle voci è portata allo stremo, come una corda tirata da una parte e dall'altra. In uno scambio serrato di battute, il frate assume chiaramente una posizione soverchiante ma i due s'incalzano con virulenza lanciandosi rombi di tuono fino al punto di spazientirsi e minacciarsi.

Il sovrano vuol sapere come comportarsi con Carlo ribelle. Faccia valere la ragion di Stato, risponde il frate, il resto non conta, ma anche Rodrigo marchese di Posa, va sacrificato per le sue idee rivoltose. "No, giammai!" è la risposta, quasi un grido d'angoscia: Filippo non vuol rinunciare a quel "cor leale". La musica è tetra e ben rappresenta l'oscurantismo politico e religioso di cui l'opera è pervasa. Il Re, tenta maldestramente di opporsi, ma ricade nella perenne solitudine del monarca e in una sofferenza rinnovata, mentre nell'Inquisitore c'è soltanto l'inflessibilità dell'aguzzino, senza nulla di umano. Il Vangelo è solo carta scritta, per non dire straccia: come Cristo è stato immolato dal Padre, è giusto fare lo stesso con Carlo e Rodrigo, vale a dire con chi si oppone allo Stato e al Sant'Uffizio. Nello scontro il vincitore è il frate. Rimasto solo, Filippo si chiede sconsolato: "il trono piegar dovrà sempre all'altar"?

Storicamente, al tempo di Filippo II, le cose non stavano esattamente così. l'Inquisizione era sottoposta al sovrano, e gli inquisitori dovevano considerarsi dei dipendenti al servizio del monarca. Ma Verdi utilizza questo "falso storico" per raccontare la sua visione politica che, all'epoca di composizione del Don Carlo – ricordiamolo, era il 1867, pochi anni prima la Presa di Porta Pia! – si trovava allineata alle posizioni di Cavour e alla sua idea di "libera Chiesa in libero Stato". Verdi sognava un'Italia finalmente e completamente unita. Diventa quindi molto significativo il fatto che l'opera venne rappresentata alla presenza di Napoleone III, il garante dell'autorità papale, dell'inviolabilità di Roma e del potere temporale papale. Verdi mette in scena lo scontro tra il Grande Inquisitore e il sovrano Filippo II per andare oltre gli anni del grande Regno di Spagna e raccontare la realtà contemporanea del compositore e la sua avversione per ogni genere di assolutismo. Quello dell'altare come quello del trono.

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